Phragmipedium besseae la sua storia e la sua riproduzione

© Gianantonio Torelli – lug 1998

Argomenti

• La storia
• L’impollinazione
• La maturazione
• La semina

La storia

Era il 13 luglio 1981 quando, durante una spedizione del Marie Selby Botanical Garden in Peru, la botanica americana Elisabeth Besse, in un dirupo ai fianchi della strada che porta da Tarapoto a Yurimaguas, trovò in modo fortunoso un bellissimo fiore, dal colore rosso vivo. Su questo episodio la fantasia degli orchidofili si è sbizzarrita, e si è scritto di tutto, attribuendo persino ad impellenti bisogni personali la fortuna di aver trovato il fiore. Personalmente ritengo attendibile la versione fornita da Calaway Dodson, che espongo brevemente qui di seguito. Elizabeth Besse non era particolarmente esperta in orchidee. Una volta trovato questo fiore, che a lei non diceva nulla di particolare, lo fotografò, preparò il relativo erbario, ne raccolse alcune piante e, terminata la spedizione, portò il tutto al Selby Garden, in Florida. Qui mostrò i campioni dell’erbario a Dodson, che, essendo essiccati e quindi decolorati, li identificò come il comunePhragmipedium schlimii, e le spiegò che il fiore doveva essere bianco-rosa, e non rosso, come invece sosteneva la Besse. La botanica allora gli mostrò alcune fotografie a colori, e davanti ad esse Dodson si rese conto che qualcosa non quadrava. Si trattava di qualcosa di molto simile aP.schlimii, ma con il fiore rosso.

phragmipedium_besseae

 

 

Elisabeth Besse, a sua insaputa, aveva fatto una scoperta straordinaria; aveva trovato un fiore incredibile, mai descritto prima. Un fiore che avrebbe sconvolto il mondo degli orchidofili. Per inciso, il Selby Garden vendette nel 1981 tre delle venti piante che la Besse aveva portato dal Peru all’incredibile cifra di $ 1700 l’una (quasi 3 milioni!).

Comunque sia, è veramente sorprendente come il Phragmipedium besseae sia potuto sfuggire per tutti questi secoli alle torme di botanici e raccoglitori che hanno setacciato l’Ecuador ed il Peru. Il suo colore rosso infatti è talmente vistoso da risultare inspiegabile che non sia stato notato da nessuno prima del 1981.

L’unica spiegazione plausibile è che abbia un altissimo endemismo, che sia cioè limitato solo a ristrettissime aree del Peru e dell’Ecuador, lungo impervi dirupi granitici, in inospitali aree fredde e nebbiose, molto poco gradite a raccoglitori e botanici. In Peru cresce solo a 1100 metri di altitudine, in dirupi della zona andina che guarda l’Amazzonia e che sono rivolti ad est, in un ambiente perennemente saturato da una umida e fredda nebbia. Questi fattori, che limitano l’accessibilità al suo areale, ne hanno certamente ritardato la scoperta.

Segnalo che di Phragmipedium besseae ne esistono due varietà, leggermente diverse tra loro. Una è quella classica, detta forma peruviana, ma che cresce sia in Peru che in Ecuador centrale, intorno a Paute (Cuenca); l’altra è la forma di Zamora, paese che si trova nel sud est dell’Ecuador.

Quest’ultima forma ha una pianta più corta e compatta, ed il fiore ha una tonalità più arancio-giallo ed i petali hanno apice più arrotondato e sono deflessi di 20° rispetto all’asse orizzontale. Secondo Donald Wimber la forma di Zamora ha 2 cromosomi in più rispetto alla forma classica, ed in natura, secondo Calaway H. Dodson, produce capsule in modo più abbondante che non la forma peruviana; questa forma però è endemica di Zamora, ed è molto rara in coltivazione.
Molto recentemente (1996, Die Orchidee, 47 (4):216-220) Dodson e Gruss hanno proposto di chiamare la forma di Zamora con il nuovo nome di Phragmipedium dalessandroi. A mio giudizio, però, le piccolissime differenze sopramenzionate non giustificano affatto la separazione in due specie distinte.

Che origini dal Peru o da Zamora possiamo comunque dire che si tratta di una pianta straordinaria, rara in natura e rarissima in commercio, in particolare dopo la sua inclusione nell’appendice I del CITES. Si tratta di una pianta che deve perciò essere assolutamente difesa e di cui si deve incentivare la riproduzione artificiale. A questo proposito, dobbiamo amaramente constatare che alcuni inserzionisti americani offrono seedling di P.besseae da seme a prezzi spaventosamente alti, fornendo così un pessimo servigio alla tutela della specie nel suo ambiente. Negli anni scorsi il Phragmipedium besseae è stato scelto come simbolo delle piante in pericolo d’estinzione; è, insomma, il ‘panda’ dei fiori. Se, come ha scritto recentemente Hirtz (AOS Bullettin, dicembre 1995) tra pochi anni in Ecuador non resterà più nulla della foresta originale, tranne le poche riserve statali, riprodurre il Phragmipedium besseae è un preciso compito della comunità internazionale degli orchidofili. Già, riprodurlo. Facile a dirsi, ma difficile a farsi. Come ben sapete, riprodurre da seme le orchidee è tutt’altro che facile; ed ancora più difficile è riprodurre i Paphiopedilum in senso lato. Alcuni anni fa ho ricevuto da Alessandro Wagner una capsula di Phragmipedium besseae, con l’incoraggiamento a provarne la semina. Da allora ho studiato in modo approfondito il problema, leggendo la (scarsa) letteratura al riguardo e facendo delle prove personali. Sono arrivato ad alcune conclusioni, molto importanti a mio giudizio, e che finora non ho visto riportate da nessun autore, e che spero possano risultare utili per chi volesse riprodurre questa pianta.

L’impollinazione

Nel 1986 Hegedus e Stermitz (AOS Bullettin, pag 367) pubblicarono la foto ed un commento sull’unica pianta di P.besseae sopravvissuta tra quelle raccolte nella spedizione originale, e coltivate ai Selby Gardens. Su questa pianta avevano provato inutilmente l’impollinazione per self sui 5 fiori che in modo successivo si erano aperti sull’inflorescenza; avevano perciò concluso che il P.besseae era sterile per self, e che quindi, possedendo una sola pianta, non era stato possibile ottenere alcun seme. Questa affermazione fu data per scontata, ed universalmente accettata. Anche Guido Braem nel 1990, su Schlechteriana, a pag.56 sostiene che sia sterile per self, per cui occorrono due cloni diversi per la propagazione della specie. Se questo fosse vero, sarebbe un vero problema. Infatti è difficile che un coltivatore abbia più di una pianta, ed in ogni caso quasi tutte le piante presenti in Italia derivano per lo più dalla stessa fonte, e quindi sostanzialmente dallo stesso clone, almeno dal punto di vista genetico. In Ecuador, infatti, la pianta tende ad una rapida moltiplicazione per sviluppo vegetativo, ma assai raramente produce capsule, un po’ come il Cypripedium calceolus da noi. D’altronde, chi potrebbe impollinarla? Il labello presenta una tasca molto chiusa e stretta, ed il polline è tutt’altro che adesivo. È probabile che in natura sia impollinata da qualche piccola ape, anche se Stig Dalstrom riferisce di aver visto alcuni colibrì frequentare il fiore (frequentare, si badi bene, però non vuol dire impollinare…). Altro problema è che l’infiorescenza produce i fiori in lenta successione, cioè il fiore successivo si apre diverse settimane dopo che il primo è appassito. È giocoforza quindi usare il polline di un fiore sul propio stigma. Dopo diverse prove, posso fortunatamente dire che l’affermazione di Hegedus, di Braem e degli altri sia del tutto sbagliata. Il loro errore sta nel fatto di aver portato il polline così com’era sullo stigma. Osserviamo bene il polline del P.besseae: si può facilmente notare che esso è ben diverso da quello dei classici Paphiopedilum, il cui polline è denso ed appiccicaticcio. Questo polline è invece racchiuso in una membrana dura, semicircolare, che non ne vuole sapere di restare attaccato alla superficie stigmatica, che oltretutto è pochissimo adesiva se confrontata a quella di altre orchidee. Scott Ware (AOS Bullettin, 1992, pag.1227) ad es. suggerisce di aiutarsi con…. la saliva!! Comunque sia, se portiamo il polline così com’è sullo stigma, effettivamente non si ottiene alcuna fecondazione, perché questa membrana impedisce l’attivazione del polline. Se però con delicatezza apriamo con uno stuzzicadenti questo granulo e preleviamo il suo contenuto e con questo impolliniamo il suo stesso stigma, otteniamo un capsula perfetta. Anche i grandi esperti sbagliano…

La maturazione

Dopo alcuni giorni dall’impollinazione, il fiore cade. La capsula nelle settimane successive si ingrossa, pur restando sempre lunga e sottile in modo caratteristico. In pochi mesi matura, e qui iniziano i dolori. Bisogna stare molto attenti, perché, senza che ci si accorga, improvvisamente diventa marroncina e si apre. Nulla di irreparabile, comunque, perché possiamo seminare anche i semi maturi. Ricordarsi quindi di controllare spesso la capsula, già dopo 3 mesi dalla fecondazione.

La semina

All’inizio, la maturazione della capsula, così repentina, mi ha colto di sorpresa, per cui ho potuto seminare solo i semi maturi. In questo caso ho sterilizzato i semi in una siringa con la solita varechina (candeggina), provvedendo a seminarli su vari terreni. La germinazione c’è sempre stata, anche se incostante nella percentuale. Purtroppo non tutti i semi germinano; ma ne germinano comunque a sufficienza per essere soddisfatti. Migliori percentuali di germinazione l’ho avuta usando capsule mature, ma ancora non aperte. Forse il cloro della varechina danneggia una parte dei semi, oppure alla completa maturazione si forma un fattore corticale di inibizione della germinazione. Riguardo i terreni di coltura, ho usato quelli che di solito mi danno più soddisfazione. In effetti il solito Phytamax funziona molto bene. Nel terreno di germinazione i protocormi, pur se lentamente, si differenziano, producendo in 4-5 mesi le prime foglioline; poi col tempo tendono a languire. Utile a questo punto è il ripichettaggio, su di un terreno arricchito di latte di cocco e succo d’ananas, ove le piantine crescono velocemente, con ottima produzione di foglie e radici. A questo punto si possono togliere dalla beuta, e mettere in vasetti con sfagno vivo, in un propagatore, con acqua sul fondo. Qui radicano velocemente.

Il nostro obiettivo – la propagazione per via asimbiotica del Phragmipedium besseae – è stato così raggiunto. Abbiamo dimostrato in modo scientifico che, al contrario di quanto affermato dagli ‘esperti’, è possibile impollinare per self un singolo fiore e che è possibile fare germinare i semi così ottenuti. Ci vorrà qualche anno per vedere queste piantine, ora larghe 5-6 cm, produrre i loro fiori rosso vivo. Ma questo risultato ci stimola ancora di più nello studio delle orchidee e nell’opera di propagazione di quelle specie più minacciate dall’alterazione del loro habitat e quindi in pericolo di estinzione.